Interview by Claudia Bigongiari
All Images © Guido Guidi
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Guido Guidi nasce nel 1941 a Cesena, la sua infanzia è quella di un ragazzo di campagna, incuriosito da tutto ciò che lo circonda. Ammiratore dalla pittura e dall’architettura.
Dal 1956 frequenta Venezia come studente di Architettura allo IUAV e di Disegno Industriale, entrando in contatto con personaggi come Carlo Scarpa, Luigi Veronesi, Italo Zannier.
Venezia e il suo immaginario dai colori corrosi dall’umidità, è di grande impatto negli occhi del giovane Guidi che comincia a dedicarsi attivamente alla fotografia. Documenta ciò che lo circonda, dalle grandi opere dei maestri architetti a ciò che più si allontana da un vero indirizzo architettonico: luoghi marginali, zone rurali e aggregazioni urbanistiche che i suoi insegnanti avrebbero probabilmente preferito demolire piuttosto che immortalare.
Ma Guido Guidi fotografa sempre “ciò che c’è”, prende la sua auto ed esplora quello che si trova lungo la strada, diventando uno dei più grandi autori del paesaggio italiano, o meglio vernacolare.
A partire dai primi anni Ottanta partecipa a progetti di ricerca sulla trasformazione della città e del territorio, fra cui l’Archivio dello Spazio della Provincia di Milano nel 1991, le indagini sull’edilizia pubblica dell’Ina-Casa nel 1999 e quelle per l’Atlante Italiano 003 a cura della Direzione Generale per l’Architettura e l’Arte Contemporanea nel 2001.
Oltre alla fotografia, dedica gran parte della sua vita all’attività didattica tornando nelle vecchie aule del suo IUAV di Venezia e all’Accademia di Belle Arti di Ravenna.
La fotografia di Guidi é stata riconosciuta e celebrata a livello internazionale, attraverso esposizioni (Fotomuseum Winthertur, Biennale d’Arte e di Architettura di Venezia, Canadian Centre for Architecture di Montreal, Guggenheim Museum di New York e Centre Georges Pompidou di Parigi) e pubblicazioni. L’ultimo suo libro presentato alla Galleria Viasaterna di Milano il 18 Febbraio scorso, e pubblicato dall’editore londinese Mack, si chiama Lunario.
Oggi fino al 6 Dicembre 2020 è possibile vedere le fotografie di Lunario presso Linea di Confine (Rubiera, Reggio Emilia).

Partendo proprio da Lunario, questo libro raccoglie fotografie scattate tra il 1968 e il 1999, in cui la luna viene sì indagata come elemento misterioso del paesaggio ma anche come pretesto per sperimentare e analizzare il medium fotografico e l’atto del guardare. La luna, questa sfera in parte illuminata dal sole ricorda il processo fotografico in cui si illumina, inquadrando, qualcosa per lasciare in ombra tutto il resto. Ci racconti una tra le tante esperienze con la luna, che la colpì particolarmente.
Domanda difficile (ride). La Luna è presente nell’immaginario di tutti. Soprattutto nella cultura italiana dopo Leopardi, come si fa a non parlare della Luna? Forse se ne parla fin troppo.
Avevo visto, negli anni veneziani, le Amalassunte di Osvaldo Licini. E conoscevo Paul Klee perché come gran parte degli studenti dello IUAV che veneravano Scarpa a sua volta Scarpa venerava Klee, al punto da tradurre delle sue immagini in cemento o in legno. Per esempio, al Museo Correr, ci sono dei manufatti riconducibili a disegni che si trovano nel libro Teoria della Forma e della Figurazione. Scarpa aveva anche curato il memorabile progetto della mostra su Klee alla Biennale del 1948.
Sempre a proposito di Scarpa, ricordo un curioso aneddoto raccontatomi da Italo Zannier quando l’incontrò alla biglietteria di Piazzale Roma a Venezia, si misero a parlare poi di punto in bianco Scarpa si inchinò tre volte, fin quasi a toccar terra con la mano e biascicando alcune parole incomprensibili… Spiegando poi a Italo, visibilmente perplesso, che in certi paesi dell’Africa esiste ancora il rituale di salutare la Luna Nuova, appena la si vede apparire come piccola falce, inchinandosi e pronunciando “Bonjour Dame Lune”.
Inoltre, ho sempre in mente il testo di Françoise Arago che nel 1839, il 7 gennaio, annunciò al mondo la nascita della fotografia all’Accademia delle Scienze di Parigi. Nel testo parla di “luna cornea” o “argento corneo, un composto che annerisce alla luce; ed è evidente che questo composto chimico, o alchemico, abbia a che fare con la luna e con l’argento… Del resto, la Luna riceve luce, non vive di luce propria, prende luce dal Sole, così come anche le cose che fotografiamo prendono luce dal Sole e dall’esterno. C’è uno scambio trasversale tra l’oggetto-fotografia, la luna, l’oggetto-luna, la metafora della fotografia, le fasi della luna e anche il Tempo.
Pensando ad un’esperienza particolare ricordo che da ragazzo, essendo nato in campagna, tornavo a casa la sera tardi dall’oratorio e nelle notti di gelo con la brina o con la neve, mi accompagnava la presenza della luna nel buio della notte. Non c’erano luci artificiali né inquinamento luminoso, lo splendore del cielo, delle stelle e delle nuvole di quei momenti è ancora presente. E può essere rimasto nel mio bagaglio.
Nel libro è spesso replicato il numero 3, negli esperimenti sul volto dell’amica Mariangela Gualtieri, nella sequenza della figlia Anna che gioca con la palla-luna, nel riflesso delle lunette durante l’eclissi di sole del ’99. Si cela qualche significato oppure si tratta di una casualità?
All’interno del libro ho inserito un mio disegno che mostra la situazione in cui mi sono trovato durante l’eclissi parziale di sole, con la proiezione dell’immagine della luna moltiplicata sulla parete.
Le tre lunette disegnate servono per indicare una moltitudine, mentre nelle fotografie le lunette sono molte di più, come le foglie.
Il numero 3 è un numero che appartiene alla mitologia e alla religione e lo si ritrova spesso.
Nei reliquiari medievali, ad esempio, la parete interna (1) è racchiusa tra 2 ante, solitamente dipinte, dov’è incastonata e protetta la reliquia. Il numero 3 in questo caso è una combinazione di 2+1.
Anche nei dipinti medievali e rinascimentali le tavole sono delle combinazioni di 2+1. Penso ai dittici ai trittici e ai polittici. I dittici sono varianti diacroniche, diacronie; i trittici e i polittici si chiamano così forse perché “triacronia” non si può dire… Sicuramente mi hanno influenzato, soprattutto i dipinti d’inizio Rinascimento. E a dire il vero preferisco i dittici ai trittici per una questione di democraticità. C’è una prima possibilità ma c’è anche una seconda. I trittici invece prevedono una figura centrale, più autorevole delle altre, un’immagine assoluta che evidenzia una gerarchia. Il dittico ammette il dubbio, è tesi e antitesi per i filosofi presocratici.
Nel mio lavoro il numero 3 lo utilizzo poco… E le pagine del libro sono sempre due, come le ali della farfalla (sorride). Il 3 è il numero indivisibile per eccellenza, stabile, è nella struttura architettonica del timpano o della capriata, nei templi e nelle chiese, che si basa sul triangolo, la figura geometrica più solida e stabile che ci sia in natura. Solida come la rappresentazione della famiglia per la religione cattolica, formata da tre persone, madre, padre e figlio, dovrebbe essere indistruttibile.
Anche il polittico m’interessa, che è l’insieme di tante storie e che si contrappone alla Pala d’altare, dipinto singolo che noi oggi potremmo chiamare propaganda. Il polittico è una sorta di grande racconto per ricordare, dedicato alla memoria delle cose e degli eventi. E la fotografia, fin dalla sua nascita, è stata considerata uno specchio dotato di memoria, non di propaganda, un sistema per ricordare le cose.
Anche se nel tempo è stata usata a volte con questo scopo, possiamo affermare che la fotografia “non è nata per fare propaganda né dei pomodori né delle creme da barba o delle saponette” come diceva Walker Evans. O della politica. La fotografia autentica rifugge dalla propaganda.
La luna sembra essere la giusta continuazione della sua ricerca sui luoghi marginali, non luoghi che Marc Augé spiegava come ‘spazi che non creano né identità né relazione ma solitudine e similitudine’. Nelle sue similitudini sulla terra (la mela, la luce che filtra dalla finestra a forma di falce, il cerchio disegnato sulla sabbia) la luna crea questa idea di spazio tramite che in parte compensa la distanza da essa. Cosa ne pensa invece di questo senso di solitudine?
È una domanda difficile. Penso a Joseph Brodsky che diceva che noi siamo come navicelle spaziali e nel tempo ruotiamo sempre più lontano dalla terra, abbandonandola. La solitudine siderale.
La terra è un pianeta e poi c’è la Luna, che è un altro corpo celeste, e nel mezzo per me c’è questo vortice. Non mi dimentico quando fotografo di questo rapporto con il cosmo che spesso viene rimosso, perché lontano, infinito. La Luna è qualcosa di potente e misterioso, qualcosa che ci affascina. Non quanto lo fu per gli uomini primitivi ma un minimo d’inquietudine ce la mette ancora… quando c’è luna piena la guardiamo con apprensione, o guardiamo con apprensione ad altri suoi fenomeni come le maree.
L’attenzione che pongo agli spazi marginali cui fai riferimento nella tua domanda non riguarda propriamente la Luna. Il bordo è molto importante, quando stampo mi rendo conto che c’è corrispondenza tra l’occuparsi di luoghi marginali della città e fare attenzione ai margini fisici della fotografia.
Anche i pittori olandesi, Vermeer ad esempio, nei loro dipinti davano attenzione alle cose minime, e coerenti alla loro pratica pittorica iniziavano a dipingere dal bordo e non dal centro come succede nella pittura italiana. “Cose da nulla”, cose di poco conto… L’ha fatto molto bene Cage con il suono. Penso anche a Gilles Clément che scrive il Manifesto del Terzo Paesaggio e dà attenzione alle erbe spontanee che crescono in luoghi marginali, in mezzo agli spartitraffico, agli spazi intermedi che sono ricchi di biodiversità, dove la Natura può fare il suo corso senza essere disturbata dall’uomo, senza essere “raddrizzata” dall’uomo.
Il suo amico e collega Luigi Ghirri nella serie dei 365 cieli, Infinito, riduceva i suoi numerosi sguardi al cielo in un’unica immagine come prova che neanche il linguaggio fotografico fosse sufficiente a fissare la natura e quindi la realtà. Lunario che indaga sia la natura che la fotografia, trova una qualche risposta alla storica domanda se il mezzo fotografico riesca a presentare o no la realtà?
La prima volta che andai a casa sua ricordo che nel soggiorno di casa, ci sedemmo sulle poltrone realizzate con dei pallet e di fronte, su una delle pareti, aveva installato un gruppo di fotografie del cielo, ma non ne parlò con questa chiave di lettura, legata all’impossibilità della rappresentazione.
La fotografia non è che debba fissare la natura, la realtà, o meglio, “l’intrattabile realtà” come la chiama Roland Barthes: un quadro, dice Levi-Strauss, in primo luogo non è ciò che rappresenta ma ciò che trasforma e quindi la fotografia del cielo è una fotografia della trasformazione del cielo. Che può mostrare associazioni, correlazioni o costellazioni nuove.
Penso a Giulio Paolini che ha lavorato per tutta la vita su questo problema. Giulio racconta che Giovan Battista Marini, sul letto di morte, si accorge che la rosa che era posta ai piedi del suo capezzale, la solita rosa gialla che aveva provato a dipingere per tutta la vita, non è la stessa rosa gialla che aveva ora davanti a sé.
Penso alla fotografia come a un’indicazione. Penso al San Giovanni Battista della Pala d’altare a Brera, mirabilmente dipinto da Piero della Francesca, che da figura a “colui che indica”, con il dito puntato verso il bambino e anche verso la canna che a sua volta indica la conchiglia e l’uovo. Penso a Leonardo che aveva dipinto il piccolo San Giovannino, ora al Louvre: un dito puntato verso l’alto, per indicare… come a dire la vita vera non è qui dentro il quadro, ma è là fuori.
Già nella conversazione alla fine del libro con Antonello Frongia viene associato Lunario al film di Michelangelo Antonioni, L’Eclissi. In generale il suo immaginario trova una certa influenza nel neorealismo cinematografico. Cosa sente di aver assorbito di più?
Premetto che ho guardato molto Antonioni. Sia l’Antonioni degli anni del neorealismo sia quello degli anni successivi. Antonioni in fondo annuncia l’uscita dal neorealismo, il suo atteggiamento è meno oggettivante e filtrato dai sentimenti. I suoi personaggi esprimono disagio, disadattamento e anche problemi di squilibri mentali. Carlo Emilio Gadda parlando dei neorealisti in un suo testo uscito sulla rivista Paragone, in quegli anni, scrive che i neorealisti quantomeno sono degli ingenui perché credono di poter cogliere la realtà in flagrante. E ci riallacciamo al discorso di prima: la realtà in flagrante non la prendi perché la realtà è timida, direbbe ancora Gadda, anticipando l’idea dell’atomo timido. Nel momento in cui lo osservi, l’atomo s’inibisce e non si trasforma.
All’inizio del suo romanzo, Atlante Occidentale, Daniele Del Giudice ci immerge in un dialogo tra due persone che si trovano fuori dal CERN di Ginevra: sono un giovane scienziato e uno scrittore anziano. Lo scrittore chiede allo scienziato di descrivergli quello che vede intorno a loro. Lo scienziato descrive quindi una donna che cammina con un sacchetto, un signore, la casa rossa, il tram che passa… Descrive tutto, tutto. Allora l’anziano scrittore chiede: “e poi?”. “E poi basta”, dice il giovane. “Ma come?”, risponde lo scrittore, e proseguendo: “Non descrivi te stesso che stai guardando? Devi dar conto anche di te stesso”. Ecco, i neorealisti questo non lo facevano, mentre Antonioni lo fa ed è questo il passaggio fondamentale anticipatore.
Anche Evans, ad esempio, che in qualche modo potrebbe appartenere ai neorealisti americani, è anticipatore di uno sguardo sul sé. Evans parla del fare la fotografia, parla di sé in quanto fotografo. Il mio contatto con Evans è fondamentale e sento di aver assorbito molto anche da Antonioni, entrambi sempre dentro a un’attenzione alle cose minime.
Insieme al neorealismo, la fotografia statunitense (come quella di Walker Evans e Robert Adams) e il suo sguardo democratico e anti spettacolare, testimone delle trasformazioni territoriali, rappresenta un’altra fonte di ispirazione. È corretto collegare questa esperienza alla sua raccolta In Veneto 1984-89, le cui immagini raccontano quei luoghi appena fuori Venezia e il loro passaggio da territorio rurale a industriale in tutta la sua frammentarietà?
Sì, per In Veneto e non solo. Insieme al neorealismo italiano, la fotografia americana è quella che ho guardato di più. E a dirla tutta, del neorealismo ho guardato soprattutto al cinema, un po’ meno alla fotografia. La fotografia americana mi ha segnato di più, in particolare quella di Evans, ma anche di quella che è venuta dopo, da Friedlander a Shore, da Robert Adams a Wessel, e da Baltz a Gohlke. I cosiddetti nuovi topografi. Anche se ne potrei aggiungere altri ancora.
Facendo un tentativo di sintesi e molta categoricità si possono individuare due scuole statunitensi: una è la scuola newyorkese e l’altra quella più a sud-ovest, intorno a San Francisco, l’area culturale di Edward Weston. Il MoMA di San Francisco era diretto da Van Deren Coke con un’idea della fotografia piuttosto diversa da quella di Szarkowski che era al Moma di New York. Una New York più razionalista, più terrestre, meno surrealista, diciamo così. Anche se ad esempio la fotografia di Friedlander è abbastanza surrealista… Mi sono fatto influenzare sia dall’una che dall’altra corrente.
Per esempio, il lavoro sulla Luna (Lunario), se volessi accostarlo a qualcosa l’accosterei alla fotografia americana del sud e non del nord. Così, en passant, non ci ho pensato più di tanto (sorride). O ancora, forse in questo caso, ancora di più l’accosterei alla fotografia di Atget, tutta.
E’ possibile riconoscere in questa sua attrazione per i luoghi passaggio da campagna a città, la sua ‘doppia’ natura amante del vernacolare, rurale che deriva dalla sua infanzia in campagna, e ammiratore dell’architettura come monumento al tempo, proveniente più dalla sua formazione accademica?
Tutto influenza. Evans racconta che quando era bambino viveva vicino alla ferrovia. Vedere le rotaie e i vagoni del treno che si fermavano con le loro scritte di destinazione ben visibili l’hanno influenzato successivamente. Diciamo che per me l’essere nato in campagna mi ha spinto verso un’attenzione vernacolare. E i miei studi di formazione nell’architettura, più legata al costruire, derivano probabilmente dal fatto che sono figlio e nipote di falegnami. Poi senz’altro, ho guardato molto Mies, Le Courbousier e Scarpa soprattutto.
Penso a un autoritratto di El Lissitzky con il compasso, la mano e l’occhio in evidenza, e ad Edward Hopper, pittore che ho amato molto. Ho conosciuto il suo lavoro quando è uscito un primo libro in America, in Italia ha tardato ad arrivare nei musei, quasi trent’anni dopo perché era considerato Kitsch, un illustratore. Hopper diceva che tutti i grandi pittori del passato hanno dipinto anche l’architettura, hanno dipinto sì la natura, ma anche l’architettura.
E ancora, Walker Evans diceva che la macchina fotografica, almeno la sua, non è nata per fotografare la natura ma l’artificio, il costruito. Evans registra i segni che ha lasciato l’uomo, sia che questo uomo sia un artista famoso, un falegname, un fabbro, o un contadino di paese.
Se ci penso bene pero’ probabilmente l’attenzione al vernacolare mi viene fuori più da Bruno Zevi che dalla mia infanzia in campagna. Zevi era uno dei miei professori di architettura a Venezia ma che veniva da una forte esperienza in America, da Harvard. Ci parlava a lungo dell’architettura vernacolare, organica, quella di Wright e quella che utilizzava la tecnica costruttiva del Balloon Frame. E ancora, è all’architettura vernacolare che si riferisce anche Le Corbusier quando dice che il mondo è pieno di ville e palazzi sontuosi orrendi, piuttosto che di bellissime architetture vernacolari o di fabbriche che non sono state costruite per la bellezza ma per la funzione. L’architettura vernacolare nasce per una sorta di necessità.
A Venezia ho sentito più volte Carlo Scarpa mentre faceva lezione o mentre parlava a piccoli gruppi dire che “Non si può parlare di bellezza. La bellezza è una roba da boutique. Noi parliamo di necessità, di fare del disegno necessario.” E io direi della “fotografia necessaria”, non bella ma necessaria, sia per te che la fai, che per il mondo che la recepisce. La fotografia non deve essere lusinghiera, come diceva il mio maestro Italo Zannier.
Già in Lunario, nell’attesa che l’evento eclissi di sole dell’11 agosto ’99 si compia, è evidente quanto sia importante l’elemento del tempo. Spesso tra le sue immagini troviamo una doppia sequenza della stessa scena, un passaggio, anche solo un minimo spostamento di luce che rende visibile il tempo. Lei è sempre riuscito non tanto a fermare un piccolo istante ma a parlare dello scorrere del tempo, l’attesa è stata la chiave?
In realtà sono impaziente…(ride). Quello che dici è vero. Mi interessano le varianti, e senz’altro il tempo è uno degli elementi più importanti. Le cose, col tempo, penso al cartiglio nel ritratto della vecchia di Giorgione. Penso pero’ di averne parlato abbastanza.
Infine l’ultima e forse più dibattuta delle questioni, un maestro come Lei che ha vissuto anche le varie trasformazioni della fotografia e il boom dell’era digitale, dove si colloca? La riproducibilità dell’immagine (per dirla alla Walter Benjamin), e anche la sua velocità di fruizione, ne fa perdere l’autenticità (l’hic et nunc)? Il digitale ha cambiato qualcosa nel concetto di fotografia?
La fotografia sicuramente cambia, si modifica. E non ho pregiudizi sul digitale.
Daniel Arasse dice che bisognerebbe riscrivere la storia della pittura a partire dall’uso dei pennelli, precisando che Velazquez, utilizzando dei pennelli lunghi 50 centimetri, dipingeva da lontano come uno spadaccino e Turner, all’opposto, dipingeva con pennelli lunghi 10 centimetri e non si girava a guardare da lontano quello che aveva realizzato. Come vedi ci sono diverse modalità per uno stesso medium…
Allo stesso modo, sicuramente il digitale ci semplifica le operazioni di ripresa, ma per me rimane un fastidio per le numerose tecniche che propone. La macchina fotografica tradizionale invece è uno strumento che utilizzo da molto tempo, la conosco bene e non voglio modificarne i comportamenti. La pellicola mi dà dei limiti e in quei limiti gioco e so che posso lavorare con quei limiti. Con il digitale riesco a fotografare di notte, anche se la stampa ha una qualità inferiore e si sente la mancanza dell’acqua “l’acqua viene segata”. Lo scrivere e lasciare tracce nell’acqua tipico della fotografia con il digitale viene meno, si fa “a secco”, e questa mancanza di liquidità io la sento.
Guido Guidi, Via Montanari, Cesena, 1980, stampa ai sali d’argento, cm 24×30, © Guido Guidi, courtesy Viasaterna Guido Guidi, Lunario 1968-1999, stampa ai sali d’argento, cm 24×30, © Guido Guidi, courtesy Viasaterna Guido Guidi, Gibellina, 1989, stampa a contatto c-print, cm 24×30, © Guido Guidi, courtesy Viasaterna Guido Guidi, Via Emilia, Savignano, 1991, stampa a contatto c-print, cm 24×30, © Guido Guidi, courtesy Viasaterna Guido Guidi, Preganziol, 1983, stampa ai sali d’argento, cm 24×30, © Guido Guidi, courtesy Viasaterna Guido Guidi, Teatro Bonci, Cesena, 1984, stampa a contatto c-print, cm 24×30, © Guido Guidi, courtesy Viasaterna Guido Guidi, Teatro Bonci, Cesena, 1984, stampa ai sali d’argento, cm 24×30, © Guido Guidi, courtesy Viasaterna Guido Guidi, Gibellina, 1989, stampa a contatto c-print, cm 24×30, © Guido Guidi, courtesy Viasaterna Guido Guidi, Lunario 1968-1999, stampa ai sali d’argento, cm 24×30, © Guido Guidi, courtesy Viasaterna Guido Guidi, Teatro Bonci, Cesena, 1984, stampa ai sali d’argento, cm 24×30, © Guido Guidi, courtesy Viasaterna Guido Guidi, Ronta, Oltre i luoghi, 2017, stampa a contatto c-print, cm 24×30, © Guido Guidi, courtesy Viasaterna Guido Guidi, Ronta, Oltre i luoghi, 2017, stampa a contatto c-print, cm 24×30, © Guido Guidi, courtesy Viasaterna Guido Guidi, Ronta, Oltre i luoghi, 2017, stampa a contatto c-print, cm 24×30, © Guido Guidi, courtesy Viasaterna Guido Guidi, Ronta, Eclissi 11-8-1999, stampa ai sali d’argento, cm 24×30, © Guido Guidi, courtesy Viasaterna Guido Guidi, Ronta, Eclissi 11-8-1999, stampa a contatto c-print, cm 24×30, © Guido Guidi, courtesy Viasaterna Guido Guidi, Ronta, Eclissi 11-8-1999, stampa a contatto c-print, cm 24×30, © Guido Guidi, courtesy Viasaterna Guido Guidi, Ronta, Eclissi 11-8-1999, stampa a contatto c-print, cm 24×30, © Guido Guidi, courtesy Viasaterna Guido Guidi, Ronta, Eclissi 11-8-1999, stampa a contatto c-print, cm 24×30, © Guido Guidi, courtesy Viasaterna Guido Guidi, Ronta, Eclissi 11-8-1999, stampa ai sali d’argento, cm 24×30, © Guido Guidi, courtesy Viasaterna